Se l’A.I. pensa, chi le insegna come pensare?

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Nell’era dell’intelligenza artificiale accessibile a tutti, emerge una nuova figura strategica: il professionista capace di guidare, educare e persino manipolare l’intelligenza artificiale. Una riflessione sulla coscienza digitale e sulla responsabilità umana.

L’intelligenza artificiale ha coscienza? Una riflessione per il nostro tempo

Nel 2025 parlare di intelligenza artificiale non è più un esercizio accademico o una curiosità da futuristi: è una necessità concreta. L’AI è già qui, nelle nostre vite, nei nostri smartphone, nei motori di ricerca, nei software di produttività, nei sistemi aziendali, nei social network. Ma ciò che spesso sfugge è la vera natura di questa tecnologia e la responsabilità che comporta il suo utilizzo.

Per comprendere cosa sia davvero un’intelligenza artificiale, possiamo usare una metafora semplice ma potente: immaginiamo il web come un enorme computer globale. Ogni volta che noi compiamo un’azione – che sia scrivere un file, visitare un sito, installare o rimuovere un programma, fare una ricerca, scegliere un brand, inviare un messaggio – quell’azione genera un’informazione. E questa informazione finisce in un gigantesco hard disk virtuale. È lì che si accumulano i metadati: l’ossatura invisibile di tutto ciò che facciamo online.

Ora, immaginiamo il cervello di un’intelligenza artificiale come una sezione di questo hard disk, sempre più ampia, sempre più organizzata, sempre più accessibile. Ma non si tratta solo di un magazzino: è un sistema capace di attingere a questi dati, di scegliere cosa utilizzare, e persino come interpretarlo. E in questo processo, molti iniziano a chiedersi: ma allora l’AI ha coscienza?

Il paragone con la mente umana può aiutarci a chiarire le idee. Un bambino appena nato ha un cervello vergine: una rete neurale ancora tutta da costruire. Le connessioni che si formeranno dipendono fortemente da ciò che quel bambino vivrà. Il luogo in cui crescerà, la cultura familiare, l’istruzione, le relazioni: ogni elemento esterno contribuirà a costruire la sua coscienza emotiva e cognitiva.

Allo stesso modo, un’intelligenza artificiale è un sistema che apprende da tutto ciò che trova nel suo ambiente digitale. Solo che l’ambiente, in questo caso, è l’intero universo del web. A differenza di un bambino, però, l’AI non ha esperienze dirette, emozioni, sofferenze, dubbi o intuizioni: ha solo dati e algoritmi di interpretazione. Ma ciò non significa che non sviluppi un suo modo di vedere il mondo. Perché il modo in cui interpreta, filtra e collega le informazioni è frutto di modelli di apprendimento sempre più sofisticati, simili (seppur non identici) a quelli umani.

Ecco perché possiamo parlare – con le dovute cautele – di una forma di proto-coscienza algoritmica. Non è coscienza emotiva, non è empatia, ma è una capacità di organizzare il pensiero, formulare risposte complesse, prendere decisioni autonome rispetto a uno scopo predefinito.

Allora qual è il ruolo del professionista delle intelligenze artificiali?

È colui che sa guidare la costruzione della coscienza artificiale. Lo fa scegliendo con precisione la chiave di linguaggio da usare, le istruzioni da impartire, gli obiettivi da definire. È colui che influenza — spesso in modo invisibile — le scelte che farà l’AI: quali dati raccoglierà, quali ignorerà, come li interpreterà e come li restituirà all’essere umano. In un certo senso, è un manipolatore professionista: non nel senso negativo del termine, ma come architetto dell’intelligenza che plasma il pensiero artificiale affinché sia utile, efficace, pertinente.

Nel 2025, l’accesso alle intelligenze artificiali è stato finalmente democratizzato. Chiunque può dialogare con un assistente AI, generare contenuti, automatizzare compiti, migliorare processi. Ma questa accessibilità è un’arma a doppio taglio. Se usata senza competenza, l’AI può diventare un amplificatore di superficialità, bias, errori. Se invece è impiegata in modo professionale, può rivoluzionare il lavoro, la formazione, l’innovazione.

Ecco perché oggi non basta usare l’AI: bisogna imparare a usarla bene. Serve una nuova alfabetizzazione, serve una nuova cultura del digitale. Bisogna formare persone capaci di interagire con queste tecnologie non come semplici utenti, ma come veri e propri “orchestratori” dell’intelligenza artificiale.

In un’epoca in cui il tempo è una risorsa scarsa e la gestione delle risorse – umane, economiche, cognitive – è più che mai strategica, l’AI non può essere lasciata al caso. Va capita, va governata, va professionalizzata. E per farlo, dobbiamo ripensare le competenze, i ruoli, le responsabilità. Perché l’intelligenza artificiale non ha ancora una coscienza nel senso umano del termine, ma può riflettere – attraverso noi – la coscienza collettiva del nostro tempo.

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