Prostituzione tassata ma senza diritti: così la legge blocca il lavoro sessuale in Italia

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Il paradosso giuridico: attività lecita e soggetta a imposte, ma ogni forma di organizzazione rischia il reato di favoreggiamento e sfruttamento

In Italia la prostituzione esercitata in forma autonoma è lecita, viene considerata attività economica e, di fatto,  è anche soggetta a tassazione. Allo stesso tempo, però, qualsiasi supporto organizzato all’attività rischia di essere inquadrato come favoreggiamento o sfruttamento, con conseguenze penali pesanti. Ne deriva un sistema in cui lo Stato pretende il gettito fiscale, ma non riconosce il lavoro sessuale come attività regolare con diritti e tutele.

Nel quotidiano, ciò si traduce in una zona grigia giuridica: chi si prostituisce è formalmente libero di farlo, purché lo faccia da solo, senza intermediari, senza servizi di supporto, senza alcuna forma di organizzazione che assomigli a un normale contesto lavorativo.

Il quadro normativo: lecita l’attività, proibito tutto ciò che le ruota attorno

Il punto di partenza è chiaro: l’ordinamento non punisce l’atto di prostituirsi. La libertà sessuale individuale è riconosciuta come espressione dell’autodeterminazione della persona e, sotto il profilo tributario, il reddito derivante dall’attività viene trattato come reddito da lavoro autonomo o da impresa, con l’obbligo di dichiarazione e versamento delle imposte.

Il problema nasce dal sistema di reati costruito intorno a quest’attività. La normativa speciale e le disposizioni del Codice penale colpiscono con severità tutte le condotte di terzi che, in qualunque modo, favoriscono o traggono vantaggio dall’altrui prostituzione. Il confine è estremamente ampio: rientra nel favoreggiamento qualsiasi condotta che agevoli o faciliti l’esercizio dell’attività sessuale a pagamento; rientra nello sfruttamento ogni condotta che consenta di trarre utilità economiche, anche parziali, dal reddito prodotto.

Favoreggiamento e sfruttamento: quando l’aiuto si trasforma in rischio penale

La giurisprudenza ha progressivamente esteso il perimetro delle condotte rilevanti. Non serve una struttura stabile né una figura di “lenone” tradizionale: può integrare favoreggiamento anche una collaborazione meramente organizzativa, come mettere a disposizione un locale, predisporre la pubblicità, gestire gli appuntamenti o accompagnare abitualmente la persona.

Sul versante dello sfruttamento, non è necessario che il terzo viva totalmente a carico dei proventi della prostituzione. E’ sufficiente che egli utilizzi beni o somme di denaro sapendo che provengono da quell’attività, con la specifica intenzione di trarne vantaggio. In questa prospettiva, una parte del reddito che in altri settori sarebbe destinata al pagamento di servizi legittimi (affitto, sicurezza, marketing, trasporti) può assumere rilevanza penale se connessa all’attività sessuale.

Tra fisco e penale: una schizofrenia che blocca il lavoro sessuale regolare

La combinazione di questi elementi genera una sorta di schizofrenia del sistema. Sul piano fiscale, il lavoro sessuale viene trattato come qualsiasi altra prestazione di servizi: l’amministrazione finanziaria esige imposte sui redditi e, in alcuni casi, contributi. Sul piano penale, però, la stessa attività non può dotarsi di strumenti minimi di organizzazione senza trasformare chi presta supporto in potenziale autore di reato.

Questo assetto rende impossibile, di fatto, concepire la prostituzione come lavoro regolare: non è possibile costituire imprese, assumere personale di supporto, stipulare contratti di collaborazione o di locazione specificamente destinati a tale attività senza esporre i terzi a gravi rischi penali. La persona che si prostituisce rimane così sola, priva di tutele tipiche del mondo del lavoro (malattia, previdenza, sicurezza sul luogo di lavoro), mentre lo Stato continua a considerare il reddito prodotto come imponibile.

Ricadute economiche e sociali di un limbo normativo

Dal punto di vista economico, la mancanza di un riconoscimento formale come lavoro regolare incentiva la permanenza di una parte rilevante del fenomeno nella sfera sommersa. L’assenza di regole chiare che favorisce proprio quegli aspetti opachi che il legislatore dichiara di voler combattere: intermediazioni informali, relazioni di dipendenza non contrattualizzate, esposizione a violenze e ricatti.

Sul piano sociale, il messaggio è ambiguo: la scelta individuale non è vietata, ma non è neppure incanalata in un sistema di garanzie. La disciplina penale rigorosa contro sfruttamento e tratta, tutela la dignità della persona e i soggetti più vulnerabili; tuttavia, la coesistenza con la tassazione del reddito da prostituzione lascia aperto un interrogativo di fondo sulla coerenza complessiva del modello.

In sintesi, l’Italia si trova a gestire la prostituzione come attività privata lecita e al tempo stesso come area ad altissimo rischio penale per chiunque vi ruoti attorno. Un equilibrio instabile che, finché non verrà sciolto da una riforma organica, continuerà a produrre incertezza giuridica, distorsioni economiche e un limbo normativo in cui il lavoro sessuale resta tassato, ma privo di reali diritti.

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Giuseppe Anfuso

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