Non ammissibilità del regolamento di competenza nei procedimenti cautelari

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Commento all’ordinanza della Corte di Cassazione, Civ., Sez. III, n. 2975/2024

 

L’ordinanza della Cassazione n. 2975/2024 ribadisce un consolidato principio di diritto che sottende alla dinamica processual civilistica: “il principio per cui la statuizione del giudice del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. non è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione, in quanto priva dei caratteri della definitività e della decisorietà (v. Cass. n. 25411/2019)”. E anche che “il difensore della parte, munito di procura speciale per il giudizio di merito, è legittimato a proporre istanza di regolamento di competenza, ove ciò non sia espressamente inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, perché l’art. 47, comma 1, c.p.c. è una norma speciale, che prevale sull’art. 83, comma 4, c.p.c., in base al quale la procura speciale deve presumersi conferita per un solo grado di giudizio (così, ex multis, la recente Cass. n. 5340/2022)”.

La Corte rileva, per l’appunto, come i caratteri della definitività e della decisorietà, che nel caso che le è stato esposto risultano assenti, sono essenziali per consentire alla Corte di intervenire con il regolamento di competenza. Inoltre la medesima Corte conferma che è sufficiente una procura speciale per il giudizio di merito, al fine di incardinare l’istanza di regolamento di competenza, ove ciò non sia espressamente escluso dal mandato alle liti. In sostanza la Corte con la pronuncia ribadisce dei principi che sono consolidati nell’orientamento giurisprudenziale nazionale, ponendo dei limiti a delle eccessive interpretazioni estensive di principi normativi e giurisprudenziali.

 

Motivi della decisione

 

Della vicenda giudiziaria, in ragione di quanto qui in controversia, è sufficiente ricordare quanto appresso, avendo previamente indicato principali le ragioni giuridiche sottese alla decisione di rigetto del regolamento di competenze, adottate dalla Corte.

– *** intimò ad *** licenza per finita locazione; l’intimato si oppose, e il Tribunale di Firenze concesse ordinanza provvisoria di rilascio ex art. 665 c.p.c. del 7.10.2021; la società notificò quindi al conduttore il relativo precetto per dar corso alla procedura esecutiva di rilascio; *** propose quindi opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c., chiedendo la sospensione del titolo esecutivo, poi effettivamente concessa dal giudice dell’opposizione pre esecutiva. Avverso tale provvedimento di sospensione, la stessa *** propose dunque il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., poi accolto dal Collegio, e il giudice dell’opposizione pre-esecutiva vi si conformò con propria ordinanza del 17.1.2023; infine, avverso tale ultima ordinanza, lo Xhanej propose ulteriore reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., che il Tribunale di Firenze, in composizione collegiale, rigettò con ordinanza del 26.4.2023, condannando lo *** alla rifusione delle spese di lite, nonché al risarcimento del danno per lite temeraria;

– avverso detta ordinanza, propone regolamento di competenza ***, sulla base di un unico articolato motivo, cui resiste con memoria difensiva ***, illustrata da ulteriore memoria;

– il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;

– preliminarmente, vada disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di specialità della procura, atteso che “Il difensore della parte, munito di procura speciale per il giudizio di merito, è legittimato a proporre istanza di regolamento di competenza, ove ciò non sia espressamente e inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, perché l’art. 47, comma 1, c.p.c. è una norma speciale, che prevale sull’art. 83, comma 4, c.p.c., in base al quale la procura speciale deve presumersi conferita per un solo grado di giudizio” (così, ex multis, la recente Cass. n. 5340/2022);

– pertanto, la procura allegata al ricorso in esame abiliti l’avv. *** allo ius postulandi ai fini della proposizione del regolamento di competenza, tanto non essendo escluso nella procura ad litem rilasciata dallo *** in data 9.2.2022, allegata al ricorso stesso;

– il ricorrente, sotto un primo profilo, propone regolamento di competenza avverso una ordinanza resa in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., sul presupposto che la liquidazione delle spese operata dal giudice del cautelare appartenga invece alla “competenza” del giudice del merito; sotto un ulteriore profilo, il ricorrente invoca il potere regolatorio della Corte in relazione ad un presunto conflitto di competenza tra il giudice dell’opposizione pre-esecutiva, ex art. 615, comma 1, c.p.c., e un non meglio identificato altro giudice, in ordine al potere di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo azionato per il rilascio;

– nella giurisprudenza di questa Corte, è stato più volte affermato il principio secondo cui “In materia di procedimenti cautelari, è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, anche nell’ipotesi di duplice declaratoria d’incompetenza formulata in sede di giudizio di reclamo, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – che, in sede cautelare, non possono assurgere al “genus” della sentenza e sono, pertanto, inidonei ad instaurare la procedura di regolamento in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l’eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall’art. 47 cod. proc. civ., sarebbe priva del requisito della definitività, in ragione del peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi. (Nella fattispecie, e a seguito di reclamo contro un’ordinanza Corte di Cassazione emessa in sede cautelare, il Tribunale del lavoro in composizione collegiale aveva declinato la propria competenza a favore della Corte d’appello, che, a sua volta, si era dichiarata incompetente ed aveva richiesto, d’ufficio, il regolamento di competenza)” (Cass., Sez. Un., n. 16091/2009);

– e ancora, quello secondo cui “In tema di procedimenti cautelari è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l’eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall’art. 47 cod. proc. civ., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi. (Così statuendo, la S.C. ha dichiarato inammissibile, ove qualificato come regolamento di competenza, il ricorso proposto avverso alcune ordinanze cautelari, con cui l’adito giudice civile aveva ritenuto inammissibili le domande, con le quali l’istante aveva invocato l’adozione di provvedimenti necessari a consentirgli di difendersi personalmente in un giudizio penale pendente a suo carico, dopo che analoga pretesa era stata disattesa dal giudice di quest’ultimo)” (Cass., Sez. Un., n. 18189/2013);

– da tanto discende che entrambi i profili di censura agitati dal ricorrente (ossia, quello inerente alla pretesa esclusiva “competenza” circa la liquidazione delle spese da parte del giudice del merito, nonché quello in ordine al presunto conflitto di competenza circa il potere di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo di cui si è minacciata l’esecuzione) sono inammissibili, neppure essendo ipotizzabile, in materia cautelare – lo si ricorda – il conflitto di competenza d’ufficio ex art. 45 c.p.c.;

– è infatti palese che le due situazioni oggetto delle due censure svolte dalla parte ricorrente sono situazioni che, essendo espressione di giurisdizione cautelare, sfuggono, giusta la ricordata giurisprudenza, al potere di questa Corte di intervenire con il regolamento di competenza;

– le caratteristiche dello stesso ricorso conducono tuttavia ad ulteriori riflessioni;

– è noto che l’orientamento secondo cui la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. (Cass., Sez. Un., n. 25831/2007) è stato oggetto di una recente rimeditazione, così giungendosi a conclusioni maggiormente in linea col mutato quadro ordinamentale, sia nazionale che sovranazionale. In particolare, l’approdo di tale diverso approccio è ben compendiato da Cass., Sez. Un., n. 9912/2018, che ha condivisibilmente affermato che “La responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”;

– nello scrutinio del ricorso in esame può apprezzarsi non già la sua “mera” inammissibilità, ma la totale ingiustificabilità, al lume dell’insostenibile inquadramento della questione sottoposta a questa Corte – l’appartenere la “competenza” circa la liquidazione delle spese nel giudizio cautelare – ad una vera e propria questione di competenza, come tale suscettibile di regolamento ex art. 42 c.p.c., anche in relazione ad un preteso (ma inesistente, già in astratto) conflitto circa il potere di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo: pertanto, detta insostenibilità finisce per costituire un elemento dal quale desumere la colpa grave, consistita come già detto nell’ignorare, senza alcun atteggiamento consapevole o critico, le interpretazioni consolidate delle norme processuali già tratteggiate;

– emblematica, in tal senso, è la recente Cass. n. 4430/2022, che ha affermato che “In tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria iniziativa processuale o, comunque, senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta”;

– in relazione al caso che qui occupa, ben possono mutuarsi – mutatis mutandis – le parole della già citata Cass. n. 4430/2022 (in motivazione): “Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata; ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176, comma 2, c.c.) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare (ex Corte di Cassazione, Sez. 5, Sentenza n. 15030 del 17/07/2015, Rv. 636051; Sez. 3, Sentenza n. 4930 del 12/03/2015, Rv. 634773; Sez. 3, Sentenza n. 817 del 20/01/2015, Rv. 634642)”;

– del resto, è ben nota la linea tracciata dal legislatore, specie nell’ultimo decennio (e ancora con la recente legge delega n. 206/2021, cui è stata data attuazione con il d.lgs. n. 149/2022), per rafforzare e qualificare la funzione di legittimità e il suo scopo di nomofilachia, intento che resterebbe ovviamente frustrato se la Corte non fosse investita solo di ricorsi che rendano necessario il suo intervento;

– ciò in piena coerenza col mutato quadro ordinamentale, ed in particolare:

  1. a) col principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., che impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio. Infatti, la celerità del giudizio di legittimità, concentrato com’è in una sola udienza, dipende non tanto e non solo dalle norme processuali che disciplinano il giudizio di impugnazione, ma anche e soprattutto dal numero di giudizi manifestamente infondati pendenti dinanzi la Corte. È dunque evidente che la proposizione di ricorsi privi di qualsiasi ragionevole chance di accoglimento ha l’effetto di impedirle la celere decisione di quelli che, fondati od infondati che siano, pongano questioni le quali richiedano un intervento correttivo o nomofilattico del giudice di legittimità;
  2. b) col principio che considera illecito l’abuso del processo, ovvero il ricorso ad esso con finalità strumentali (ex multis, Cass. n. 5677/2017);
  3. c) col principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (così, Cass., Sez. Un., n. 12310/2015, in motivazione);

– tanto risulta conforme anche alla giurisprudenza sovranazionale in tema di accesso al giudice di legittimità, che salvaguarda lo scopo legittimo della funzione nomofilattica per la certezza del diritto e la corretta amministrazione della Giustizia, con uno strumento che è proporzionale alla struttura ed alla funzione del giudizio di legittimità, nel rispetto dei requisiti della sussistenza di una base normativa, della conoscibilità ex ante (che, al riguardo, è assicurata da una giurisprudenza sufficientemente consolidata o comunque ben nota, tanto che perfino la sua declinazione più rigorosa può essere plausibilmente prevista), con esclusione di un eccessivo formalismo (per tutte: Corte EDU, sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c/ Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44; Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, Succi e altri c/ Italia, sui ricorsi riuniti nn. 55064/11, 37781/13, 26049/14, già citata);

– deve dunque concludersi che, dovendo ritenersi proposto il ricorso in esame quanto meno con colpa grave, il ricorrente deve essere condannato d’ufficio al pagamento in favore della resistente, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata in misura che può stimarsi congruo ragguagliare alle spese processuali liquidate (o ad un loro multiplo), ovvero in relazione al valore della controversia (v. Cass. n. 26435/2020), fermo restando che, nella liquidazione della somma stessa, l’art. 96, comma 3, c.p.c., non fissa un limite minimo o massimo, solo rinviando al prudente apprezzamento del giudice (v. Cass. n. 8943/2022).

                                                            

                                                             Conclusioni      

 

Con la pronuncia testé citata, la Corte osserva come il regolamento di competenza non richieda particolari conferimenti, rispetto alla procura alle liti, ma è necessario che abbia ad oggetto un provvedimento definitivo.

Infatti da quanto emerge dal corpo dell’ordinanza, i ricorrenti avevano correttamente conferito la procura speciale de quo, tuttavia la decisione impugnata non aveva carattere definitivo, di talché, in linea con un orientamento giurisprudenziale consolidato, la Corte adita ha rigettato richiesta.

Il principio espresso nell’ordinanza n. 2975/2024, relativo alla definitività della decisione, viene peraltro richiamato nella nella sentenza SS.UU. 18189/2013, nel cui corpo la Suprema Corte afferma che “In tema di procedimenti cautelari è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l’eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall’art. 47 cod. proc. civ., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi”.

Appare evidente come il principio di diritto enucleato all’interno dell’ordinanza n. 2975/2024, sia pacificamente accettato in giurisprudenza, tant’è che la Corte ha colto l’occasione per ribadire il principio per il quale risulta “meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass., Sez. Un., n. 9912/2018)”, al fine di evitare che vengano incardinati procedimenti privi di alcun tipo di pregio giuridico.

Peraltro, quanto affermato dalla Corte di Cassazione, è pacificamente accolto anche in dottrina, a mente della quale “la sospensione – che dura fino al provvedimento con il quale il primo presidente od il collegio definisce la questione, disponendo la restituzione degli atti all’ufficio rimettente – non è ordinata a norma dell’art. 295, con la conseguenza che l’ordinanza non è impugnabile con il regolamento di competenza[1]

 

 

 

[1] M.Cirulli, Osservazioni sull’art. 363 c.p.c., Iudicium Il processo civile in Italia e in Europa (8.11.2024)

 

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