La sentenza Cassazione n. 37723/2025 chiarisce se alla bancarotta per distrazione si aggiunge l’autoriciclaggio, fissando il confine tra salvataggio d’impresa e illecito penale per amministratori e creditori.
La Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza n. 37723/2025, definisce in modo più netto il rapporto tra bancarotta fraudolenta per distrazione e autoriciclaggio. La Corte afferma che il concorso di reati esiste solo quando, dopo la distrazione dei beni dal patrimonio della società, segue un’ulteriore attività autonoma di reimpiego dissimulatorio del profitto illecito.
Secondo il principio enunciato, il semplice trasferimento di somme o beni dalla società fallita a una società operativa, anche collegata all’imprenditore, non basta per integrare l’autoriciclaggio. E’ necessario un quid pluris, cioé un comportamento concretamente idoneo a ostacolare l’identificazione dell’origine delittuosa delle risorse. La pronuncia si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che, negli ultimi anni, insiste sul carattere “aggiuntivo” e non meramente sovrapposto dell’autoriciclaggio rispetto ai reati fallimentari.
Quid pluris dissimulatorio: la linea rossa tra gestione in crisi e reato di autoriciclaggio
La bancarotta fraudolenta per distrazione, oggi collocata nell’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, colpisce il distacco di beni dal patrimonio dell’impresa in dissesto con danno, anche solo potenziale, per la massa dei creditori. Rientrano nella nozione tutte le operazioni che impoveriscono il patrimonio sociale senza un effettivo ritorno economico, spostando attività a favore dell’imprenditore o di soggetti a lui vicini.
L’autoriciclaggio, previsto dall’art. 648-ter c.p., riguarda invece chi, dopo aver commesso un delitto non colposo, impiega, sostituisce o trasferisce il denaro o i beni derivanti da quel reato in attività economiche o finanziarie “in modo da ostacolare concretamente” l’individuazione della loro provenienza illecita. La clausola modale impone una verifica stringente: occorre un’operazione di reimpiego che aggiunga un’effettiva capacità dissimulatoria rispetto al reato presupposto, non un mero godimento del profitto.
La sentenza n. 37723/2025 ribadisce che il giudice deve accertare ex ante, sulla base di dati concreti, se l’operazione contestata sia idonea a rendere difficile la ricostruzione della provenienza del bene. Sono sintomatici, ad esempio, cambi di intestazione a società schermo, catene di trasferimenti ingiustificati, interposizioni fittizie o montaggi negoziali senza razionalità economica, costruiti per far perdere traccia alle somme distratte. In assenza di questi elementi, la condotta resta assorbita nella sola bancarotta.
Due fasi distinte: prima la distrazione, poi l’eventuale reimpiego illecito
Un altro passaggio centrale riguarda il profilo temporale. L’autoriciclaggio presuppone che il reato a monte sia già stato commesso: la condotta di impiego o trasferimento deve collocarsi in un momento successivo rispetto alla distrazione. La giurisprudenza di legittimità, anche in precedenti pronunce, ha chiarito che la stessa condotta non può valere contemporaneamente come elemento materiale della bancarotta e come autonoma operazione di autoriciclaggio.
La decisione in commento conferma questa impostazione: se l’atto che svuota l’impresa produce contestualmente l’occultamento del bene, senza ulteriori passaggi, resta configurabile un solo reato. Perché si aggiunga l’autoriciclaggio, occorre un “secondo tempo”, in cui il profitto illecito venga reimpiegato in forme tali da alterarne la tracciabilità nel circuito economico. In questo modo si evitano duplicazioni punitive e si tutela il principio di proporzionalità della risposta penale.
Effetti su imprese, mercato del credito e responsabilità degli amministratori
Sul piano economico, la sentenza offre un elemento di certezza per chi gestisce imprese in crisi. Operazioni come il trasferimento di rami d’azienda, la cessione di asset a società operative del gruppo o l’apporto di beni a veicoli di ristrutturazione non sono automaticamente assimilate a schemi di autoriciclaggio. La responsabilità penale scatta solo quando queste manovre risultano prive di logica imprenditoriale e sono strutturate unicamente per mettere al riparo i beni da creditori e curatore.
Per i creditori e per il sistema bancario, il principio chiarito dalla Cassazione mantiene elevato il presidio contro i comportamenti opportunistici. Quando alla distrazione seguono percorsi complessi di reinvestimento, pensati per nascondere il denaro in nuove società o all’estero, il cumulo tra bancarotta per distrazione e autoriciclaggio consente di colpire con maggiore severità chi altera la concorrenza e svuota la garanzia patrimoniale comune.
La pronuncia n. 37723/2025 si inserisce così in un quadro giurisprudenziale che tende a tenere distinto il reato fallimentare, centrato sulla tutela dei creditori, dall’autoriciclaggio, volto a proteggere l’ordine economico generale dalla reimmissione di capitali illeciti nel circuito legale. Per amministratori, sindaci, revisori e consulenti d’impresa, il messaggio è duplice: le operazioni di risanamento fondate su reali esigenze economiche restano possibili, ma l’uso distorto di strutture societarie per nascondere il profitto della bancarotta espone a un rischio penale rafforzato, con riflessi diretti sulla continuità aziendale e sull’accesso al credito.